I due giovani arrestati domenica a seguito dei tafferugli occorsi durante la manifestazione “viola” di Arcore sono stati rilasciati. Nei confronti di Giacomo Sicurello e Simone Cavalcanti, il giudice di Monza, Natalino Giuseppe Airò, pur convalidando l’arresto, ha stabilito la scarcerazione, non sussistendo a suo parere motivi che giustifichino il ricorso alle misure richieste dal pm, ossia la conferma della custodia cautelare in carcere per il primo e l’obbligo di dimora nel suo paese per il secondo. Tutto in regola: l’art. 274 del Codice di procedura penale, infatti, determina puntualmente quali siano le esigenze alla base delle limitazioni preventive della libertà personale, sancendone l’ammissibilità solo quando vi sia il concreto pericolo della fuga dell’imputato, o dell’inquinamento delle prove o della commissione di delitti da parte di esso.
Regolare anche il rinvio a giudizio per i due, programmato per il 7 marzo. Ma nel mono-partito delle strumentalizzazioni all’italiana, come al solito, nessun astenuto. Il primo che proprio non può fare a meno di rispondere al richiamo della natura è il Ministro dell’Interno, Roberto Maroni, che dal suo pulpito ulula: “Spero che chi si è reso responsabile dell’aggressione ai poliziotti [ndr. il reato contestato è quello di cui all’art. 337 del Codice penale, resistenza a un pubblico ufficiale] subisca una condanna esemplare“. Tipo una multarella da 5.320 euro.
E’ lapalissiano che quando si parla di “condanna esemplare” si valga a dire “una condanna che fa da esempio”: un provvedimento, cioè, idoneo a costituire un precedente giuridico che influenzi i successivi processi ed il trattamento degli imputati in essi. L’inflizione di una pena, qui, non è configurata al fine di punire una condotta illegittima o di rieducare un reo, permettendone la redenzione e il reinserimento nella società civile, bensì è improntato al perseguimento di un obiettivo di ordine pubblico e di politica criminale: l’instaurazione di un’atmosfera che, esasperando la certezza di una pena severa oltre i limiti ragionevoli, costituisca un deterrente per gli eventuali emuli futuri. Ci si trova, cioè, innanzi alla riduzione morale dell’individuo da persona a strumento statale: un retaggio della teoria preventiva generale della pena, che per ovvi motivi non ha trovato che uno spazio infinitesimo nell’ordinamento penale della nostra democrazia. Ma una scelta di parole così negativamente curata era quanto di più ovvio ci si potesse aspettare da un membro di spicco di una coalizione che solo pochi giorni fa aveva addirittura auspicato l’introduzione nel Codice penale di fattispecie sanzionabili retroattivamente.
Ma anche dall’altra parte della barricata, le reazioni non sono apparse di migliore qualità. Quasi in tempo reale rispetto alla notizia dell’arresto, su Facebook è comparsa una pagina che, contando attualmente circa seicento membri, solidarizza coi ragazzi coinvolti nei fatti. In una nota, pubblicata a caratteri cubitali all’1.38 di ieri, lunedì 7 febbraio, si lanciano sottili strali polemici nei confronti della procura di Monza. Si dice:
Giacomo sarà processato domattina per direttissima a Monza. Ed il motivo? Aver solo detto la verità, facendosi portavoce delle folle oramai troppo represse e sature.
Se è vero quanto è vero che è legittimo, ed anzi è un diritto sacrosanto difendersi dalle accuse, è vero anche che affermazioni come quella riportata sono assimilabili né più né meno che a quelle con cui il premier aizza i suoi fedelissimi. Sono, di fatto, connotate da una ambiguità di fondo, che si risolve in un doppiopesismo sempre bene accetto quando si tratta di esigere più o meno velatamente un trattamento privilegiato per condizione sociale o estrazione politica. Lo fa Berlusconi nei suoi proclami registrati in serie e lo fanno i manifestanti che protestano contro il Presidente del Consiglio chiedendone le dimissioni, al punto che si stenta a capire chi in tutta questa storia donchisciottiana giochi il ruolo del cavaliere e chi quello del mulino a vento.
Già in altra sede avevo dichiarato la mia sia pur cauta fiducia alla magistratura come istituzione, argomentando che la struttura della realtà è tale per cui è molto improbabile, soprattutto nell’ambito garantista di un procedimento penale, che si giunga con una sentenza definitiva all’affermazione della menzogna sulla verità dei fatti. L’avevo detto parlando del caso Ruby, e lo ribadisco ora, rivolgendo la mia attenzione a quei tanti manifestanti che, a torto o a ragione, nell’ultimo anno sono stati accusati di aver compiuto dei reati: va bene esporre le proprie ragioni, va bene anche denunciare irregolarità delle procedure e persino l’ingiustizia di una legge, ma non è logicamente accettabile difendere le toghe dall’accusa di esser politicizzate quando esercitano la loro funzione sull’avversario ideologico, salvo poi punzecchiarle quando siamo noi ad essere attenzionati.
In tutto questo marasma, forse l’unico ad aver mantenuto un contegno rigoroso è stato Beppe Grillo, personaggio che stimo ma non adoro, e che ha avuto la coerenza di offrire l’appoggio legale dei suoi avvocati senza suscitare troppo clamore con facili polemiche dell’ultima ora. La moderatezza della sua risposta, tuttavia, non è stata prevedibilmente recepita da alcuni. Quelli de Il giornalino di Gian Berlusca, ad esempio, con virtuosi giri di parole sobillano che sotto sotto Grillo sia a favore della violenza. Dimenticano, ovviamente, che l’assistenza legale è un diritto garantito dalla Costituzione, e che la legge che sovente evocano, vuoi come una spada, vuoi come uno scudo, non ritiene affatto riprovevole l’iniziativa del patrono del Movimento 5 Stelle.
LUCIANO IZZO